Nuovo Saggio sull'origine delle idee
Colle dottrine fino a qui dichiarate parmi d'aver mantenuto il promesso, ed ogni mio debito sanato. Discopersi e additai il nodo della questione (41-45); ne narrai la storia (41-384); e ne diedi anche la Teoria (385-1039). In questa trovai vero ciò che tante volte s'era detto, e tante volte negato, che c'era qualche cosa di concreato col nostro spirito, che il faceva intelligente; ma vidi e mostrai che quest'elemento ingenito o concreato era più semplice, che i migliori savi non avessero opinato nè sospettato. Messomi nella spinosa ricerca, «che cosa fosse quest'elemento semplicissimo», sfuggito alla vista di tant' altri filosofi che il negarono al tutto perché nol poterono essi osservare e notare, rinvenni, ch' egli dovea essere ed era un'idea, che costituiva l'UNICA FORMA (1) dell'intelletto e della ragione umana. E qui io potrei deporre la penna. e metter fine a questo trattato. Pure non mi dà l'animo di farlo, se prima io non deduco dalla Teoria esposta alcuni corollari, che spontanei ne discendono, e che troppo rilevano pel bisogno di questi tempi.
(1) È assurdo il dire, che le primitive forme dell'intelletto sieno molte. come vuol il Kant; anche perchè Impossibile est, come dice s. Tommaso, simul multa PRIMO et PER SE intelligere: una enim operatio non potest simul multis terminis terminari (C. Gent. I, XLVIII).
Questi nostri tempi si mostrano più che mai occupati e affaticati da questioni per l'umano sapere e per l'umana dignità gravissime, da questioni che formano le basi di quanti ha l'uomo nobili pensamenti, e destini, e speranze. E tra esse primeggia sull'altre quella del Criterio della certezza, così strettamente congiunta con quella dell'Origine delle idee, che lo scioglimento della prima è natural conseguenza della seconda. A ragionare dunque di questo primo e principal corollario, torrà la prima Sezione: nella quale io intendo di far due cose, cioè 1º di fermare quale sia il criterio della certezza, 2° e di mostrarne l'applicazione, ossia il modo onde per esso le cognizioni umane si accertano: sicchè il valore di queste apparisca esser intrinseco ed effettivo, e non puramente convenzionale, o anche falso, siccome fanno mostra di creder gli scettici e gl'indifferenti. E per giustificare la cognizione umana, e mostrare ch'essa non è un nulla, o un'apparenza, ma che anzi essa è vera ed oggettiva, io pongo mano a rimetter sott'occhio le varie maniere di cognizione che aver si posson dall'uomo, e poi intendo provar di ciascuna a parte il mio assunto.
Abbiamo veduto, che nell'uomo è 1° la sensazione (1), 2º l'idea dell'essere, 3º ed una forza unica (il soggetto senziente ed intelligente) che unisce il sentito e l'idea dell'essere, e forma la percezione intellettiva delle cose.
Sulle percezioni intellettive, lo spirito riflette, e riflettendo vi esercita diverse operazioni, colle quali ne cava le idee, e mediante queste, unisce e scompone idee e percezioni, forma continuamente giudizî e raziocinî.
Tutte le cognizioni umane da questi pochi fonti scaturiscono. Ora la semplice sensazione non si può ancora chiamare cognizione: essa non è che la materia della cognizione.
La cognizione umana dunque si parte in quella che è puramente formale, la quale si suol dire anche pura, e in quella che è mista di materia e di forma.
(1) Alle sensazioni intendo che sieno ridotte anche le immagini, che sono rinnovamenti di sensazioni sofferte, e il sentimento fondamentale che è come una sensazione universale e permanente di noi stessi.
Io prendo dunque a dimostrare, che tanto la cognizione formale, quanto la cognizione materiata non è essenzialmente illusoria e soggettiva, come pretendono i sofisti di tutti i tempi, ma tale che porge all'uomo la verità oggettiva ed assoluta.
Prima comincerò a dimostrar questo della cognizione formale, e poi verrò dimostrandolo della cognizion materiata: chè la forma dell'intelletto è essenzialmente intellettiva, ed è quella ond' ha esistenza ogni conoscimento. Per il che solo ragionando di essa, si può rinvenire il principio supremo ed universale della certezza. In ultimo parlerò degli errori a cui l'umana cognizione soggiace. Ma prima dovremo definire che cosa sia certezza, e premettere intorno ad essa alcune considerazioni generali: divideremo dunque tutta questa Sezione in cinque parti, che sono:
Parte I. Del criterio della certezza.
II. Applicazione del criterio a dimostrare la verità della cognizione pura.
III. Applicazione del criterio a dimostrare la verità della cognizione non pura, o materiata.
IV. Degli errori a cui soggiace l'umana cognizione.
V. Conclusione.
«La certezza è una persuasione ferma e ragionevole, conforme alla verità ».
La verità dunque negli uomini non è il medesimo che la certezza.
lo posso aver presente allo spirito un'opinione vera, e dubitare della sua verità: in tal caso io non ho la certezza.
Non basta dunque che una cosa sia vera in sé, affinchè sia vera anche per noi. Affinchè sia vera anche per noi, noi dobbiamo avere un motivo che ci produca una ferma persuasione, e ce la produca ragionevolmente: una ragione cioè, per la quale noi ci dobbiamo convincere, che vera e indubitata sia quella nostra opinione o credenza (1).
Certo la verità logica non ha un'esistenza in sè fuori d'ogni sussistenza; ma ella esiste in sè fuori dell'intelletto umano: e questo giustifica la distinzione tra una cosa vera in sé, e vera per l'uomo, mediante la certezza ch'egli ha di questa verità. Queste cose sono evidenti, e non ho bisogno ora d'indagare più addentro la natura della verità: il che mi cadrà di dover fare in altro luogo.
(1) Chiamo qui opinione o credenza qualunque proposizione concepita dall'uomo, a cui possa dare o negare l'assenso.
La definizione che diedi della certezza, mostra ancora la differenza che passa tra essa, la persuasione, e la verità. La persuasione può essere fermissima (o dichiararsi tale da chi la ha), e di cosa falsa: questa non è certezza.
La persuasione può essere fermissima ed anche conforme alla verità, ma può essere appoggiata ad un motivo irragionevole e falso (1): in tal caso l'uomo sarebbe persuaso della verità, la possederebbe in parte, ma non avrebbe, a tutto rigore, la certezza, quand' altri non volesse distinguere due specie di certezza, l'una ragionevole, l'altra irragionevole, distinzione che a me non garba, come quella che, anzi che chiarezza, induce confusione nel presente nostro argomento.
(1) Talora il motivo onde l'uomo è mosso ad una fermissima persuasione, è ragionevole senza che egli stesso se n'avvegga, e senza che il sappia annunziare altrui. Questi ha la certezza. Badisi adunque di non confondere il credere senza ragione, o sopra ragione falsa, e il credere con vera ragione, ma senza sapersene render conto. Molti della plebe credono al Vangelo: sẹ voi gl'interrogate, forse non vi sapranno dire il perchè: ma ciò non vuol dire. che non credano con ragione, mentre credono sull'autorità divina, e sulla forza d'una verità che parla loro internamente: essi sono vinti dalla migliore delle ragioni, senza potervi tosto riflettere, e notare ciò che in sè avviene, così distintamente da saperlo altrui comunicare.
La certezza dunque risulta da tre elementi: 1º la verità nell'oggetto; 2° la persuasione ferma nel soggetto; 3° un motivo, o ragione producente tale persuasione.
Se la produzione della certezza in noi è fatta da una ragione che ci convince e trae a dare il nostro assenso ad una proposizione; ella non può esser mai cieca, mai un puro fatto, mai una sottomissione puramente istintiva.
Fu il Reid, fondatore della scuola scozzese, il primo, ne' tempi moderni, che pronunciò un tale assurdo, e travolse la filosofica verità in un abisso, onde non uscendo, sarebbe stata eternamente annullata. Atterrito egli dallo scetticismo universale che la filosofia lockiana avea di sé generato, quasi direi per una insuſſicienza della propria ragione individuale, per un suo proprio scoraggiamento; non potendo sostenere uno stato così desolante di dubbio, cercò un ausiliare nell'opinione degli altri uomini, e ricorse, siccome naufrago, alla tavola del senso comune: disse, che le credenze comuni non si potevano né provare, nè giustificare; che riposavano sopra una necessità irresistibile di assentire, sopra una legge di natura, a cui l'uomo era sommesso. La natura stessa, secondo lui, veniva in soccorso della ragione impotente; e non potendo questa giustificare le prime nozioni, un istinto tuttavia necessitava l'umanità a crederle, perchè l'umanità rifugge per natura dall'annientamento, che sarebbe a lei avvenuto se a' primi ed essenziali principi ella avesse potuto negar la sua fede.
In tal modo egli credeva d'avere svelto lo scetticismo dalle radici; e senza avvedersene l'avea radicato e consolidato maggiormente.
Poichè s'ella è una necessità della mia natura il prestar fede a certe proposizioni, vuol egli dire, che quelle proposizioni sien vere? S'io presto loro il mio assenso per conservare la mia esistenza, che senza questo assenso cesserebbe, che altro mi spinge a ciò se non il principio, bensì forte, bensì irrepugnabile, ma però cieco, del mio interesse? E ciò che a me è utile e necessario, sarà egli vero per questo? o a dir meglio, non è tramutata qui la verità nell'utilità o nella necessità? Quella dunque non esiste più, ma sole queste esercitano su di me la loro forza. Ma s'ella è così, non sono io nelle tenebre egualmente di prima? anzi in tenebre più fitte, perchè in tenebre necessarie, essenziali? Dico più: non è solo l'ignoranza a cui mi si condanna; è l'errore che mi si prescrive, che mi s'impone, pena la mia esistenza che è un errore il dar nome di verità a ciò che non è che una utilità, che una fiera necessità. Mi si comanda un delitto, mi si sforza alla più grande delle viltà. Poichè non è un delitto, che atterra tutta la nobiltà della mia razionale natura, il tener io per sola norma del vero e del falso, l'utile e il disutile? Crudele natura, se tale è la legge che detti all'uomo! crudele benefizio, se intendi salvarlo dall'annullamento collo spegnere in lui ogni favilla di sua eccellenza! Natura stolta e bugiarda, se scancelli dall'anima razionale il carattere che gli hai impresso tu stessa per ingannarlo, e ti penti dell'intelligenza è della vocazione alla virtù, che gli hai data, acciocché egli signoreggi gli enti che lo circondano! Che tirannia più trista, più esiziale di quella che eserciterebbe una si fatta natura sulla porzione essenzialmente libera dello spirito umano? che fatalità inesorabile strazierebbe l'intendimento nostro! L'assurdo in tale sistema usurperebbe il trono della verità, eliminata per sempre dall'universo, e cessata dal novero delle essenze; noi avremmo un intendimento, che, privo della luce che il forma, tentennerebbe qua e là istintivamente; e una paura sorda, atroce, formerebbe la base dell'essere umano, fuggente sempre il nulla che gli sta accanto, e fuggente senza conoscere ciò che fugge: una strana deità caccia incessantemente ed esagita l'uomo di questi filosofi, e ha di lui provvida cura, una deità încognita, fatale, inconcepibile.
Tale sistema, che nel primo aspetto ha di fuori una vista benigna e provvidente, produsse già il suo eo veleno di che tocchiamo.
Dall'Inghilterra passò in Germania, e si trasformò nel kantismo: il quale non è che il sistema scozzese fecondato, approfondito, vestito di forme più gravi e più regolari.
Il Reid avea detto, che noi, quanti siamo uomini presi in corpo, erediamo a certe nozioni prime per un movimento immediato del nostro spirito, il quale non può fare a meno di dar loro l'assenso. Questo, dal Reid fu posto come un fatto non esplicabile. It Kant ammise quel fatto: aggiunse solo, che se non si potea intieramente spiegare, si potea però analizzare accuratamente; cioè, che quella virtù intima dello spirito, che emetteva di sè per una cotal suggestione i principi comuni della ragione e la fede ad essi (1), si potea divisare e discernere a tenore de' suoi eſſetti; e tentò di distinguere questi effetti. Il risultamento ch'egli ebbe del suo lavoro si fu, che quella specie d'istinto spirituale si manifesta con un certo numero di funzioni, e quella virtù parziale, onde lo spirito fa ciascuna di quelle funzioni, chiamolla forma dello spirito; così nacquero le forme della filosofia trascendentale. Il Reid avea creduto di buona fede, di difendere all'uomo il possesso della verità oggettiva: il Kant s'accorse che il sistema reidiano faceva il contrario, cioè la toglieva interamente. Egli l'apri allo scoperto, e dichiarò che la ragione teoretica non avea alcun valore oggettivo, e che la verità di tutti i ragionamenti umani non potea essere che soggettiva, cioè apparente al soggetto. Ne s'avvedeva, che pur questa maniera di dire, verità soggettiva, finiva col non esser altro che un abuso di parole, chè la verità soggettiva non è verità, e c'è nella stessa espressione un’intima ripugnanza.
(1) Si confusero anche i principi della ragione colla fede ossia coll'assenso ad essi prestato. Che una suggestione interna ci mova a dare l'assenso a certi principi conosciuti, s'intende: ma una suggestione che produca i principi stessi, questo non si può intendere. Il Reid e il Kant confusero ugualmente queste due operazioni dello spirito l'intuizione, e l'assenso, e con una sola ipotesi pretesero spiegarle entrambi.
Nel suolo italiano non attecchì una sì fatta stranezza; e vi fu sempre combattuta.
In Francia, la filosofia scozzese comparve nel 1811; e prima di . questo tempo, il Condillac vi regnava con assolutissimo regno, nello stesso tempo appunto che un'infinita turba di Condillachiani si vantavano d'essere gelosissimi possessori della libertà di pensare (1).
Dopo quel tempo, trovò l'adito in Francia la filosofia tedesca, coperta in parte sotto il nome d'eclettismo; al qual nome facilmente da quello di criticismo passar si potea, chè quella filosofia che chiama in giudizio tutti i sistemi, potea bene scegliere da essi. Nè per questi soli nomi mi curerei di dare altrui biasimo (2).
Non tutti conoscono in Francia la vera natura di una somigliante filosofia, essendovi essa ancora nova, e le sue ultime conseguenze non per anco uscite in luce. E sono pure gli ultimi parti d'una filosofia, quelli che fanno giudicare inappellabilmente la causa della lor madre, assolverla, o condannarla per sempre.
Quindi non è maraviglia se, mentre alcuni s'ingegnano di far servire tale filosofia agl'interessi della religione', altri la coltivano senza aver punto riguardo a conseguenze religiose, e dimostransi pronti di ricevere le conseguenze tutte della medesima senza conoscerle. Questi ultimi accelerano in tal modo lo sviluppamento del sistema, e la sentenza capitale del medesimo. Ciò che solo ci fa star pensosi e solleciti di un tal esito, si è il ricordarci, che una cattiva dottrina filosofica non è mai giudicata, se prima molti uomini non sieno per essa sacrificati all'errore!
(1) Quanto l'uomo è poco informato di se stesso! quant'egli è spesso ingannato, ove prende a portar giudizio delle cose sue proprie. Quelli che si credono i più liberi, sono bene spesso i più schiavi. Conviene che passi il tempo del fervore, affinché altri uomini, guardando indietro, sieno in caso di rilevare in quale stato si trovavano gli uomini che gli hanno preceduti. L'uomo dice spesso di voler pervenire ad un termine. Credete per questo, che i mezzi ch'egli sceglie sieno quelli appunto che a quel termine il devan condurre? V'ingannereste troppe volte, se vi avvisaste di creder ciò sulla sola intenzione sua, secondo la quale vi dice d'aver scelto que' mezzi. Stiamo ne' filosofi. Leggete il Berkeley; voi troverete, che prima di tutto vi accerta, ch'egli inventò l'idealismo non ad altro fine che a quello di confutare gli scettici, che erano pullulati dalla filosofia del Locke. Intanto il Locke stesso non ebbe che questa intenzione. L'effetto dell'idealismo fu quello di accelerare allo scetticismo i suoi progressi. Accorse il Reid con tutta la buona volontà di raffrenarlo; e per far questo, vi oppose un sistema che dava origine al Criticismo, cioè allo scetticismo più estremo che sia stato mai nel mondo, all'ultimo sviluppamento e perfezione dello scetticismo. Ma quale è finalmente lo scopo che il Kant si propone colla sua dottrina? Ad udir lui, non è altro da quello che si proposero tutti i suoi precessori, cioè di dar fine agli scettici, che egli chiama un cotal genere di nomadi, che abbominano ogni coltura « del suolo, e che dissolvono di giorno in giorno la civil società» (Pref.). Egli giunge a dire, che nulla aver vi dee di opinabile nella sua dottrina: «Ho già fatta a me stesso la sentenza, egli dice: in questo genere di ricerche non è lecito di opinare, e si dee vietar tutto ciò che mostra faccia d'ipotesi, come merce proibita, e non dargli alcun prezzo, anzi, tostochè si conosca, denunziarla» (Ivi). Dopo tali dichiarazioni e promesse, vuol appagarvi con un equivoco. E quale! Eccolo, egli ammette una cognizione necessaria, ma di una necessità apparente e soggettiva. Con questa piccola giunta egli ha distrutto ogni cognizione, ogni possibilità di cognizione. Il procedere di quest'ultimo è certo da sofista: né oserei indagare ciò che s'avesse nell'animo. Ma de' filosofi di sopra nominati, de' quali la retta intenzione è manifesta, io dirò, ch'essi ci danno un chiaro argomento della verità accennata, che l'uomo a giudicare di se medesimo erra sovente, e che ciascuno difficilmente conosce su qual terreno si sta, e quale sia il vero ed intero effetto della sua maniera di pensare.
(2) Il criticismo ha però qualche cosa di prosontuoso e di assurdo anche nel nome: poichè un uomo assume con esso di portar giudizio della ragione degli uomini, quasichè egli fosse un essere diverso dagli uomini. La denominazione di ecletticismo non ha questo difetto; ma significando una scelta di dottrine, non esprime in esse l'unità, senza la quale non c'è vera filosofia, ma solo un ammasso di staccate sentenze. Gli eclettici, ove si dovessero giudicare dal nome che a sè impongono, si direbbero una gente di memoria e non d'ingegno.
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